Warning: quella che vedete sopra è una delle poche immagini che ritraggono Bergkamp mentre vola.
Una delle prime cose che mi viene in mente quando penso a Dennis Bergkamp è la sua paura di volare. È uno di quei meccanismi spontanei che talvolta si innescano nella mente umana: associare una persona a un isolato ricordo, a un singolo episodio. Eppure è strano, perché io sono calcisticamente innamorato di Dennis Bergkamp. Ho un debole per il Bergkamp calciatore, quasi un senso di frustrazione nostalgica per averlo visto poco all’opera solo con gli occhi distratti di un ragazzino (che spreco!) e non poterlo vedere con gli occhi più attenti e maliziosi di oggi (maledizione!). Del Dennis Bergkamp uomo, delle sue paure, della sua vita fuori dal campo, invece, so poco e nulla. E nemmeno mi interessa più di tanto saperne. Comunque, il fatto che abbia saltato addirittura delle trasferte pur di non prendere l’aereo o si sia organizzato da solo per raggiungere alcuni stadi d’Europa è una cosa fighissima. Contribuisce a rendere unico il personaggio. E in ogni caso un’idea su questa sua fobia me la sono fatta: Dennis Bergkamp non vuole volare perché si sente troppo a suo agio sulla terraferma. Anzi, sul campo da calcio per essere più precisi.
Ho sviluppato nel tempo una personalissima convinzione su questo calciatore. Secondo me, a un certo punto della sua carriera (magari nelle giovanili dell’Ajax), deve essersi auto-imposto di non segnare mai gol brutti. Non lo so, penso a un codice di comportamento personale o a qualcosa di simile. Prima regola: non fare gol brutti. Non sarebbe una cosa fantastica? Questo particolare farebbe di lui un unicum nel panorama calcistico mondiale, un puro senza peccato, un eletto. Un vero fondamentalista del pallone. In Bergkamp estetica e concretezza sono andate sempre di pari passo. Anzi, di più, si sono fuse fino a diventare una cosa sola, un concetto non definito perché non definibile. Questa qualità astratta ha reso Bergkamp superiore. Trascendenza e immanenza su un rettangolo verde.
A CASA SUA
Bergkamp è nato, cresciuto e tornato all’Ajax. Il club più affascinante d’Olanda per un giovane bello e forte. La carica simbolica di un 10 di tal fatta su una maglia così semplice e bella. Poteva forse essere altrimenti?
Oltre a questo, che già può essere tutto, anche i gol (per tre volte di fila capocannoniere dell’Eredivisie) e i trofei. E la chiamata della Nazionale, di cui nel tempo diventerà un perno fondamentale. E le attenzioni di mezza Europa. Bergkamp all’Ajax ha fatto la storia, mettendosi in mezzo alle leggende del passato e ai giganti del futuro. In un periodo storico di transizione da un calcio fantasioso e romantico a un calcio potente e lavorato, Bergkamp è stato al contempo l’ideale interprete di questo gioco sulla scia di Cruijff e Van Basten e il logico antesignano di eroi moderni come Ibrahimovic e Van Persie. Quanto sarebbe stato bello ed eccitante e pericoloso un tridente offensivo Cruijff-Van Basten-Bergkamp? Tatticamente possibile? In quali posizioni per esaltarne doti naturali e intesa? Se io fossi l’ipotetico allenatore di un tridente del genere mi affiderei probabilmente a un àugure dell’antica Roma per interpretare la volontà degli dei. O, più laicamente, alla forza dei numeri e li disporrei in campo in ordine crescente: 9, 10 e 14. O, ancor più meccanicamente, seguirei l’ordine alfabetico e poi gli direi: “Vabbè, fate un po’ come volete, io oggi mi voglio divertire”. Il loro rapporto in campo potrebbe trasformarsi in qualcosa di più di una semplice magnifica situazione di gioco. Potrebbe essere l’inizio di un nuovo Big Bang.
E’ stata dura ma li ho contati: 9 pallonetti. La specialità di casa del primo Bergkamp.
INTER: IL FALLIMENTO INCOLPEVOLE
Le attenzioni di mezza Europa, dicevo prima. In una recente intervista alla Gazzetta dello Sport lo stesso Bergkamp ha dichiarato che Cruijff lo voleva portare con sé al Barcellona e che tra le tante squadre interessate a lui c’era anche il Milan degli olandesi. Insomma, quanto di meglio il calcio europeo potesse offrire a inizio anni ’90. Bergkamp decide invece di cedere alle avances di Massimo Moratti, diventato da poco patron dell’Inter.
Ma a Milano la stella venuta dall’Olanda diventa man mano sempre meno luminosa. Il ragazzo ha talento e colpi da numero uno, è evidente a tutti. Il guaio è che non riesce a esprimere a pieno e con continuità tutto il suo potenziale. L’inesperienza personale e il tatticismo esasperato della Serie A oscurano parzialmente il talento e ne indeboliscono le idee. Non credo che il suo scarso successo in Italia sia dovuto a una questione fisica e/o di ritmo e intensità di gioco. Forse più a fragilità caratteriali. Non deve essere stato affatto facile per lui passare dalla grande famiglia Ajax alla grande sfida Inter.
Nella stessa intervista prima citata, a proposito della sua esperienza neroazzura, Bergkamp ha anche affermato che al momento della firma del contratto gli era stato promesso un progetto di calcio offensivo. Una rassicurazione che deve aver influito molto e in parte fuorviato un giovane calciatore d’attacco proveniente da una squadra come l’Ajax. Il biondo olandese deve essersi sentito tradito dal calcio poco spettacolare poi effettivamente messo in pratica. Fatto sta che l’avventura di Bergkamp con la maglia dell’Inter non decolla mai del tutto (vabbè, forse dovevo usare un altro verbo…) e dopo solo due anni valigie pronte e tanti saluti al Bel Paese, con annesso dispiacere di Moratti per il deludente epilogo di quella che sarebbe potuta diventare una intensa storia d’amore (e da uno che di lì a qualche anno si sarebbe poi follemente innamorato di Recoba c’è da aspettarsi un sincero dispiacere).
Ma volendo andare oltre il sentito dire e il segno (non) lasciato, mi chiedo. Ha davvero fallito un giocatore che ti conduce per mano alla vittoria di una Coppa Uefa con 8 gol in 11 partite? Si può arrivare a conclusioni così radicalmente negative per uno che segna gol così?
Qui si è trasformato all’improvviso in Van Basten…
Sandro Mazzola a proposito del nostro: “Bergkamp aveva le qualità tecniche ma non aveva la testa del campione nel saper soffrire”.
GUNNER FOREVER
E poi arriva l’Arsenal. Dennis Bergkamp torna a vestire una maglia biancorossa e, come per incanto, tutto ricomincia da dove si era interrotto. È quasi come se nell’estrema consapevolezza dei propri mezzi Bergkamp abbia spontaneamente deciso di premere Play al videoregistratore in pausa e legare in continuità l’esperienza londinese a quella di Amsterdam. Mi piace pensare che sia stato lui a montare il film della sua carriera.
Alla corte di un esteta come Wenger, Bergkamp si esalta ed entusiasma gli stadi britannici. Anni fantastici conditi da gol meravigliosi, giocate sopraffine e leadership silenziosa conquistata per meriti tecnici. È l’uomo giusto, nel posto giusto, al momento giusto. Lui più di tutti, più di Henry, più di ogni altro è il perfetto interprete dello spirito dell’Highbury, ideale rappresentante di un tempo mitico che non c’è più. Quella di Bergkamp all’Arsenal è un’irripetibile storia di classe, eleganza, romanticismo, calma e intelligenza.
11°MINUTO DI UNO DEI TANTI NEWCASTLE-ARSENAL, ST. JAMES PARK
Nelle varie classifiche dei gol più belli di tutti i tempi trovano posto di diritto alcune azioni viste e riviste centinaia di volte in tutte le salse. L’assolo di Maradona a Messico ’86; il tiro al volo da posizione defilata di Van Basten agli Europei del 1988; rovesciate sparse qua e là; botte da fuori; tiri a giro; ecc. Raramente nella top 10 di queste compilations mi capita di vedere quello che per me è nettamente il gol più bello della storia del calcio.
…E l’ottavo giorno il Signore creò questo:
È tutto così maledettamente bello, a partire dal contesto ambientale ed estetico. Il St. James Park, lo stadio del Newcastle, è un gioiello architettonico. Il teatro perfetto per il gol perfetto. E poi i colori delle maglie, e il posticipo serale, e le luci dei riflettori. A distanza di 13 anni non sono poi ancora così sicuro se quel giorno si stesse giocando realmente una partita di Premier League o si stesse girando un film su un set cinematografico.
L’Arsenal recupera palla nella propria metà campo e dà il via a una veloce transizione offensiva. Dopo un rapido cambio di gioco l’azione si sposta a sinistra, zona di competenza dell’esterno francese Robert Pires. Il passaggio di Pires taglia il campo da sinistra verso il centro, la sua velocità è smorzata dai due rimbalzi che la palla fa prima di arrivare a Bergkamp. Ok, il mio tentativo di descrizione fisica di questo gol a questo punto può arrestarsi. Io ci ho provato, lo giuro, ma ora non riesco più ad andare avanti con parole che abbiano un significato compiuto. Perché quando la sfera sta per arrivare a Bergkamp succede qualcosa che non si era mai visto prima su un campo da calcio e che, ne sono certo, non si rivedrà mai più. Il movimento innaturale che il biondo numero 10 esegue (invece) con estrema naturalezza è un misto tra una piroetta di danza classica e una torsione da trapezista. Dopo il leggero tocco di interno sinistro Bergkamp allarga entrambe le braccia per trovare equilibrio e in quel preciso istante assume le sembianze di una scultura futurista. Il resto dell’azione è la naturale conclusione di un disegno magico: pallone da una parte e Bergkamp dall’altra; il disperato tentativo di contrasto del difensore avversario (…e l’Oscar come miglior attore non protagonista va a Nikolaos Dabizas) che, cadendo un po’ goffamente a terra, deve aver pensato :”qui stiamo facendo la Storia !”; riposizionamento del corpo sul pallone per calciare; tiro pulito di piatto diretto all’angolino basso alla sinistra del portiere in uscita. E il dolce gonfiarsi della rete.
Se penso che in Italia molto probabilmente questo gol sarebbe stato annullato per la leggera pressione che Bergkamp esercita per liberarsi completamente di un marcatore già superato, mi vengono i brividi. E allora grazie anche all’arbitro di quella partita per non aver macchiato un capolavoro. Se l’avesse annullato ci sarebbero stati gli estremi per una class action dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
BERGKAMP PER ME
Dennis Bergkamp per me è l’uomo dei gol impossibili. Come quello appena descritto innanzitutto. E come questo:
E questo:
E questo:
E questo:
Potrei andare avanti per ore. Non sono semplicemente gol bellissimi questi, no. Sono gemme preziose. Sono i segnali più sensibili dell’imperscrutabilità del creato. Sono quelle cose che ti spingono a dire non solo che il calcio è lo sport più bello del mondo, ma che anche la vita a volte sa essere meravigliosa. Sono quei gol che non ti stanchi mai di vedere, un po’ come non ti stanchi mai di ascoltare Stairway to Heaven o Like a Rolling Stone. Quei gol che poi vuoi segnare anche tu nelle partite a calcetto con gli amici.
A CLOCKWORK ORANGE
Dennis Bergkamp per me è una leggenda. Un calciatore tutto sommato sottovalutato, personalmente gli darei domani stesso un Pallone d’Oro honoris causa (a proposito, nel 1993 si piazzò secondo dietro Baggio, un suo fratello calcistico). Il dio del Football con lui si è davvero divertito: gli ha regalato dosi infinite di tecnica, le ha miscelate sapientemente a intelligenza tattica e coordinazione nei movimenti. Ne è uscito fuori un prodotto raffinato, in cui mente e corpo corrono sempre in equilibrio sulla stessa frequenza celestiale. Un fantasista con un grande senso della posizione e del tempo della giocata. Quando era in giornata di grazia, le sue azioni offensive sembravano accompagnate dalle note musicali provenienti da un’orchestra di archi e violoncelli.
Perché tutto questo amore incondizionato verso questo giocatore? Perché Bergkamp è quello che serve al calcio. Perché Bergkamp è uno di quelli che rende un favore alla gente che va a vedere le partite. Perché senza Bergkamp è tutto più misero. In un mondo senza Bergkamp l’arancione si scolorerebbe, fino quasi a confondersi col grigio.
“E per un momento, o fratelli, un usignolo era entrato nel CAMPO. E tutti i più malenchi peli del mio intero plott si drizzarono dall’emozione; e brividi su e giù, come malenche lucertoline, su e giù. Perché l’AZIONE io la sapevo. Era un pezzo della gran 10 del BIONDO OLANDESE.” (Alexander DeLarge su Dennis Bergkamp)
Nicola Cicchelli