09 Febbraio 2016,ore 10.36

Ranieri a 360° sul Leicester: “Ai miei dico sempre: “Cercate il vostro fuoco dentro”

Ranieri

Qui sotto vi riproponiamo una bellissima intervista di Mario Sconcerti a Claudio Ranieri. Il tecnico del Leicester City si racconta a 360° sulla propria squadra, le differenze tra il calcio italiano e quello inglese e non solo…

Leicester non arriva a trecentomila abitanti, è la decima città inglese, tredicesima nel Regno Unito. Non è bellissima, piove per molti giorni, l’umidità ieri era al 93%, il mare del Nord è vicino, tira spesso un vento freddo che fa piegare la pioggia. Ha qualche monumento, come il Vecchio Castello e la Torre dell’Orologio, ma se la cercate nel mondo tutti vi diranno che Leicester è la sua squadra di calcio. Prima era una città industriale, poi è diventata una città di giovani, piena di università. Ora si parla solo di calcio.

 

In quasi centoquarant’anni il Leicester non ha mai vinto un campionato, solo tre coppe e sei campionati di B. Ora è in testa alla classifica dall’inizio, senza un giocatore davvero importante, contro avversari che non l’hanno mai degnata di uno sguardo. E un vecchio tecnico italiano, Claudio Ranieri, che nessuno ha mai ignorato, ma pochi hanno amato per quello che era diventato, un formidabile maestro di calcio normale. Nel calcio per una volta tutti hanno ragione, in qualunque modo giochino. Il problema è la media a lungo termine. Non conta se arrivi terzo il primo anno di carriera, conto cosa hai fatto nei vent’anni successivi. E’ lì che è nascosto il dettaglio.

 

Ranieri ha allenato chiunque e dovunque (Napoli, Fiorentina, Roma, Inter, Juventus, Valencia, nazionale Greca, Chelsea, Atletico Madrid eccetera). E’ arrivato a una semifinale di Champions quando il Chelsea era ancora una squadra normale, ha portato il Cagliari dalla C alla A, è arrivato secondo e terzo in Italia. Ha vinto poco, ma c’è sempre stato. Ora è arrivato il Leicester, una classica storia di calcio nell’Inghilterra dove tutti sono molto ricchi e dove il calcio continua a moltiplicarsi. Una città piccola, una squadra che potrebbe essere l’Atalanta o il Chievo, un attaccante, Vardy, che la mette dentro comunque si giri. Qualcosa di miracoloso per chi crede ai miracoli. Per Ranieri è stato tutto quasi automatico.

 

“Sono arrivato in agosto e mi sono messo a guardare le registrazioni di tutte le partite della stagione precedente. Ho visto che la squadra aveva fatto un ottimo finale, correvano molto, davano l’idea di star bene. Quando ho parlato con i giocatori ho capito che avevano paura del tatticismo italiano. Il calcio di un tecnico italiano vuol dire questo, tattica, cercare di impossessarsi della partita seguendo gli schemi e le idee dell’allenatore. Parlare tanto di calcio. Non mi sembravano convinti, nemmeno io lo ero. Ho molta ammirazione per chi costruisce moduli di gioco nuovi, ma ho sempre pensato che prima di tutto un buon tecnico debba impostare la squadra sulle caratteristiche dei suoi giocatori”.

E allora? Cosa successe?

“Dissi che mi fidavo di loro, che avrei parlato pochissimo di tattica. Per me l’importante era corressero tanto come li avevo visti correre nel finale della stagione”.

 

E i ritiri, la preparazione atletica?

“Secondo me servono a poco, o meglio, hanno meno importanza in Inghilterra. Qui si allenano tutti con grande intensità, c’è agonismo anche quando si fanno gli scatti sulla pista. E le partite sono sempre molto combattute. La mia idea è che prima di tutto i giocatori abbiano bisogno di recuperare, poi di allenarsi”.

 

Detta così sembra un’eresia compiaciuta.

“Forse lo è, non lo so. Credo naturalmente nell’allenamento, ma credo anche che tutto sia relativo. I miei ragazzi si allenano molto, ma non troppe volte. In Inghilterra il gioco è sempre ad alta intensità, sfinisce. C’è più bisogno di recuperare. Noi giochiamo il sabato, la domenica è libera per tutti. Il lunedì riprendiamo in leggerezza, come i lunedì italiani. Martedì allenamento duro, mercoledì riposo assoluto. Giovedì altro allenamento duro, venerdi rifinitura, sabato di nuovo partita. Due giorni almeno fuori dal pallone. E’ questo il patto del primo giorno, mi fido di voi. Io vi spiego un po’ di calcio ogni tanto, voi mi date sempre tutto”.

 

Sembra una teoria di Zeman alla rovescia…

“Non lo so e non credo sia una formula perfetta. Il calcio non è chimica, non ha regole universali. Conta prendere il meglio dal gruppo che hai. Qui si sentono tutti partecipi, giocar male significa tradire gli altri. Sono persone libere, consapevoli, hanno un lavoro e delle responsabilità. Si divertono a mantenerle, a sopportarle. Ho un giocatore che viene ogni mattina da Manchester, uno arriva da Londra. Non sarebbe pensabile in Italia, ma nemmeno in Inghilterra. A Leicester si fa perché il gruppo se lo può permettere. E’ il risultato di cui sono più orgoglioso. A volte siamo a tavola e mi spavento per quanto mangiano, mai visto giocatori così affamati. Le prime volte mi sorprendevo, poi ho imparato a sorridere. Se corrono così tanto, mangino quello che vogliono.”

 

Di cosa ha bisogno il giocatore inglese rispetto a uno che gioca in Italia?

“Credo di divertirsi. In Italia il calcio fa fatica a essere un divertimento, credo anche ci si alleni con meno intensità, meno convinzione. E’ più un dovere. Qui c’è la forte consapevolezza di essere giovani, sani e di fare un bel mestiere. Sprecarlo sarebbe da fessi. Quando si allenano si impegnano come in partita, non ho mai dovuto riprendere uno per pigrizia. Poi vogliono tranquillità, non li devi prendere di punta. La quasi totalità ha un professionismo spontaneo. Pretendono calma e rispetto anche nello spogliatoio. Se vuoi far tu la prima donna non ti perdoneranno.

 

Pensa al Chelsea di Mourinho?

“No. Penso a quello che vedo. In Inghilterra è si gioca come se fosse sempre un derby. Ho visto Milan-Inter pochi giorni fa, quella è stata una partita all’inglese. Corsa, botte, squadre un po’ lunghe, tanto agonismo, una bella partita che alla fine è scappata di mano all’Inter. Ma un calcio non italiano. Io dico sempre ai miei: cercate il vostro fuoco dentro. Un’occasione così non capiterà più. Cercate quel fuoco, non vergognatevi. E loro non si vergognano, anzi, pretendono di sognare. Lo so che non funziona sempre così, ma nessuno sa come funzioni davvero. Noi abbiamo trovato qualcosa che va da solo, dobbiamo almeno rispettarlo fino in fondo”.

 

Si può paragonare a qualcosa, a qualcuno, questo effetto Leicester?

“E’ il risultato che ho sempre cercato nel calcio, metà gioco e metà consapevolezza di un traguardo. Poco mestiere, nessuno di noi pensa sul serio di lavorare nella vita, altrimenti ci alzeremmo sempre stanchi. Viviamo per lavorare, allora diamo un significato a quello che facciamo. Io ho avuto fortuna, alla fine della carriera da giocatore ho trovato una squadra così. Era il Catanzaro di Gianni di Marzio, quello di Palanca, Silipo e gli altri. Capisco non sia un grande esempio, meglio Guardiola. Ma quella era una squadra come il Liecester, un gruppo di amici che viveva insieme. “ Piccolo inciso: Gianni di Marzio, a cui ho riportato il ricordo di Ranieri, mi dice che Ranieri per dieci anni ogni estate ha portato in giro per il Mediterraneo sulla sua barca i suoi amici di allora. E che ancora oggi, nella sua villa in Toscana, si fanno grandi cene di squadra, come prima di una partita”.

 

Vincerà alla fine questo campionato?

Non lo so, ma è già fantastico aver meritato la domanda. Quando sono arrivato il presidente mi chiese 24 punti entro Natale. Ne abbiamo fatti 37 o 39, non ricordo nemmeno più quanti. E ora siamo ancora lassù. In un tempo in cui contano solo i soldi, credo si sia una speranza per tutti.

 

L’Inghilterra ha il più grande campionato del mondo, ma fa fatica a trovare suoi grandi giocatori. Perché?

“Qui hanno una grande organizzazione a livello giovanile. Hanno le loro accademie federali, selezionano, guardano, controllano come ti occupi dei giovani. Ogni due-tre anni danno una valutazione tecnica del tuo settore e in base a quella premiano. Vengono investiti un sacco di soldi, tanti che a volte nemmeno li capisco. Noi dobbiamo mettere 5-6 milioni l’anno, a parte quelli spesi per i giocatori. Ora mi chiedo, dove li spendo tutte queste sterline? Una volta che ho fatto cinque campi sportivi, che ho preso i dirigenti, costruito la struttura d’accoglienza, completato il personale, cosa faccio ancora? Il lavoro resta. Cosa compro l’anno dopo se ho già tutto? E come possono spendere ancora di più squadre come il City o lo United che guadagnano molto più di noi?

 

Ma il problema della qualità resta.

“Una cosa è vera. Sono inglesi, in fondo in fondo tirano di più al fisico che alla tecnica. Non troppo, ma sono diversi da noi che ci innamoriamo subito del mingherlino talentuoso. Il loro calcio è velocità e forza. Potenza. Quando si trovano davanti un ragazzo alto un metro e novanta pensano subito a un centravanti. Noi cerchiamo sempre il dieci. Ma come organizzazione sono in anticipo”.

 

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